Diffamazione via Facebook: per la Cassazione è diffamazione ‘attenuata’
Data la grande diffusione dei contatti via social network, negli ultimi anni si è posto un problema spinoso in ambito legale: è possibile parlare di diffamazione via social, ed in particolare di diffamazione aggravata considerando i social network come una sorta di ‘mezzo stampa’ (per il quale la legge penale prevede l’aggravante) ?
La quinta sezione della Cassazione, con la sentenza numero 4873/2017 depositata l’1 febbraio, sembra aver dato una risposta che presumibilmente orienterà la giurisprudenza da oggi in poi.
Secondo la quinta sezione della Cassazione, infatti, i social (e nel caso in questione Facebook, uno dei più utilizzati) sono ‘mezzi di pubblicità’ in grado di aumentare in maniera indefinita la diffamazione, ma senza per questo poter essere considerati dei mezzi stampa.
Nel caso del 2013 che è stato analizzato dalla Corte, ma che potrebbe ben essere equiparabile a miriadi di altri casi, un 60enne catanese aveva diffamato via Facebook un terzo.
Il giudice preliminare aveva ritenuto che non si potesse configurare la diffamazione aggravata a mezzo stampa, ma bensì diffamazione aggravata dal ‘mezzo di pubblicità’ (che era il social network) nonché, nel caso concreto, dall’attribuzione del fatto determinato.
Una decisione di questo tipo aveva comportato il dimezzamento della pena edittale.
La Procura ligure aveva fatto ricorso, ma la Cassazione ha sostanzialmente dato ragione al gip. La quinta sezione ha altresì fatto riferimento ad un precedente della giurisprudenza, la sentenza 31022 del 2015, nel quale si era ritenuta la bacheca di un social network meramente ‘altro mezzo di pubblicità’ e non già ‘stampa’ ai sensi dell’articolo 595 comma 3 del codice penale.
Escludendo quindi che la diffamazione su Facebook o su altro social possa essere considerata diffamazione a mezzo stampa, ne deriva che viene anche esclusa l’applicabilità della legge 47/1948 che prevede una pena da 1 a 6 anni di carcere per la diffamazione aggravata dall’essere compiuta a mezzo stampa.
In realtà già nel 2015 le Sezioni Unite si erano pronunciate sulla materia sostenendo che anche accettando una ‘interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata’ del termine stampa, si potevano ricomprendere le testate giornalistiche online, ma non si poteva allargare forzosamente il concetto fino a ricomprendere anche ‘i nuovi media’, vale a dire blog, forum e social network.
La diffamazione via Facebook, per la Cassazione, rimane quindi una diffamazione potremmo dire ‘attenuata’ e a mezzo pubblicità, contrariamente all’opinione di molti giuristi che fino ad oggi hanno ritenuto che anche i social potessero essere considerati, per il fatto di poter raggiungere un numero enorme di persone, ‘un mezzo stampa’.
approfondimento : depenalizzazione dell’ingiuria
Cassazione penale 2 gennaio 2017 n. 50
È del tribunale penale la competenza a giudicare la condotta consistente nella diffusione di messaggi minatori e offensivi attraverso il social network Facebook, configurando i reati di minacce e diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3 cod. pen.
La prima sezione della Suprema Cassazione conferma che la diffusione di messaggi minatori e offensivi attraverso il social network Facebook integra le ipotesi dei reati di minacce e diffamazione aggravata ex art. 595, terzo comma cod. pen. poiché potenzialmente foriera di di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone (conformemente, Cass. pen., 1 marzo 2016, n. 8328 ; Cass. pen. 13 luglio 2015).
La pronunzia della Cassazione riforma la sentenza del Tribunale di Pescara che aveva ritenuto i reati di competenza del Giudice di Pace, escludendo che tali condotte potessero configurare la comunicazione con un mezzo di pubblicità alla luce del fatto che il predetto social network sarebbe stato accessibile ai soli utenti registrati.
Al contrario, secondo i giudici di legittimità la competenza spetta al Tribunale, non applicadosi l’art. 4, d.lgs. 274/2000, poiché il requisito della pubblicità deve rintracciarsi nel potenziale disseminativo dello strumento di comunicazione elettronica utilizzato «e non dall’indiscriminata libertà di accesso al contenitore della notizia» (anche Cass. pen., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431)