La confessione del tradimento su WhatsApp è una prova?
Oggi come oggi milioni e milioni di persone nel mondo usando WhatsApp come uno strumento di comunicazione, efficace e veloce, non solo per motivi personali ma anche per motivi di lavoro.
In questo modo, questa app di messaggistica rapida è diventata una delle più usate e famose nel mondo intero.
Ma quello che si dice su WhatsApp può essere usato come una prova, ad esempio in tribunale, oppure no?
Bisogna fare particolare attenzione a tutto quello che si dice e si fa su WhatsApp in quanto le nostre parole potrebbero essere usate contro di noi? Secondo una sentenza del tribunale di Monza, sì.
O meglio: in caso di tradimento, bisogna fare attenzione a confessarsi su WhatsApp perchè le nostre parole potranno poi essere usate come una prova contro di noi, in tribunale. Ma vediamo che cosa è successo nel caso di specie.
Nel caso in questione, era avvenuto che una donna si era autodenunciata su WhatsApp, confessando al marito di averlo tradito, durante un dialogo con lo stesso avvenuto sulla famosa app verde di messaggi veloci.
Il marito, scoperto il tradimento, aveva salvato i messaggi e aveva pensato bene di usarli nel corso del giudizio di separazione che era avvenuto fra i due coniugi, in conseguenza dell’adulterio (fra l’altro confessato) della moglie.
E in questo caso, il tradimento costituisce un motivo di addebito della separazione, che è stato considerato provato appunto per la presenza della confessione della donna avvenuta su WhatsApp.
I messaggi WhatsApp come possibile prova nel processo
La confessione di un tradimento, effettuata su WhatsApp, può quindi diventare una prova che viene usata in tribunale e che testimonianza una confessione.
I giudici del tribunale di Monza hanno deciso, nel caso di specie, che i messaggi scambiati per mezzo dell’app di messaggistica rapida potessero essere considerati aventi lo stesso valore probatorio di altri documenti cartacei, diciamo tradizionali.
In questo senso il messaggio su WhatsApp con cui la donna si confessava faceva prova a tutti gli effetti come se fosse stata una lettera o un documento, sempre che la controparte non dichiarasse e dimostrasse che gli stessi erano stati falsificati (proprio come avviene per i documenti).
Ai sensi dell’art. 2712 del codice civile italiano anche le riproduzioni fotografiche, fonografiche, cinematografiche etc. fanno piena prova di un fatto, a meno che appunto non ne venga disconosciuta l’autenticità da parte del soggetto che l’ha prodotta.
Quella norma ovviamente è antecedente all’esistenza di WhatsApp, ma secondo i giudici monzesi (e comunque, secondo giurisprudenza più recente) anche le chat dell’app WhatsApp possono rientrare fra le fonti che sono disciplinate in questo articolo, e quindi fra le fonti che fanno prova piena dei fatti salvo che la parte interessata ne disconosca l’autenticità.
Di conseguenza, le chat e i messaggi vocali su WhatsApp possono provare l’infedeltà coniugale e possono anche essere anche utilizzati come dei mezzi di prova nel processo, purché siano prodotte in giudizio (ad esempio come screenshot o estrapolazione su supporto esterno, o con trascrizione delle conversazioni).