Quando le parole assumono connotati negativi e sfociano in querele e quando no
L’uso delle parole può avere conseguenze giuridiche, in particolare nel momento in cui ci sono insulti o offese rivolte a terzi. In ambito legale, esiste una distinzione netta tra ingiuria e diffamazione, che determina se un insulto sia perseguibile penalmente o meno.
Con l’evoluzione della giurisprudenza e le modifiche normative, alcune espressioni possono essere tollerate senza conseguenze legali, di contro altre possono integrare reati o illeciti civili. Analizziamo nel dettaglio i contorni giuridici della questione, individuando quali espressioni possono ritenersi non querelabili.
Differenza tra diffamazione e ingiuria
Nel diritto italiano, la diffamazione costituisce un reato, disciplinato dall’articolo 595 del Codice Penale. Essa si configura quando un soggetto offende la reputazione di un’altra persona in sua assenza, comunicando l’offesa a più persone. È pertanto necessario che la vittima non sia presente e che il messaggio lesivo sia diffuso a una pluralità di individui.
L’ingiuria, invece, dal 2016 non è più considerata reato, ma costituisce un illecito civile. Essa si verifica quando un soggetto offende direttamente un altro in sua presenza, anche tramite messaggi istantanei o chat private.
Pur non essendo più soggetta a sanzioni penali, l’ingiuria può dar luogo a una richiesta di risarcimento danni in sede civile, oltre a una possibile sanzione amministrativa che può variare da 100 a 12.000 euro a seconda della gravità dell’offesa.
Quando un insulto diventa diffamazione
Anche affermare un fatto vero può costituire diffamazione se ciò comporta un danno all’onore o alla reputazione di una persona. La giurisprudenza ha chiarito che non è sufficiente che il fatto sia veritiero: è necessario che la sua divulgazione sia giustificata da un interesse pubblico o da una finalità legittima.
Ad esempio, rivelare a più persone che un soggetto è in difficoltà economica o ha avuto problemi giudiziari in passato potrebbe configurare diffamazione, se il fine non è quello di informare ma di screditarlo.
Un altro elemento imprescindibile quando si parla di diffamazione è la cosiddetta “non continenza” della critica. Il diritto di critica, riconosciuto dall’ordinamento, consente di esprimere opinioni negative nei confronti di qualcuno, purché ciò avvenga con toni adeguati e senza eccessi verbali. Quando la critica si trasforma in un attacco personale gratuito o in un’espressione denigratoria senza fondamento, può configurarsi il reato di diffamazione.
Insulti nei social e nelle chat: quando scatta la denuncia?
Le offese sui social media o nelle chat devono essere valutate in base al contesto in cui vengono espresse. Se un insulto viene pubblicato su una chat privata tra due persone, si configura come ingiuria e può essere oggetto di un’azione civile per danni. Nonostante ciò, se lo stesso insulto viene scritto su una piattaforma pubblica o in una chat di gruppo in assenza della persona interessata, può costituire diffamazione.
La giurisprudenza ha stabilito che, se la persona offesa è presente online e legge il messaggio in tempo reale, l’offesa è equiparabile a un’ingiuria. Se invece il messaggio viene letto in un momento successivo e nel frattempo è stato visualizzato da più persone, si configura il reato di diffamazione.
Quali insulti non sono querelabili?
Sebbene non esista un elenco tassativo di espressioni lecite o illecite, poiché ogni caso va valutato in base al contesto, alcuni tipi di frasi sono generalmente ritenuti non querelabili:
• Critiche legittime: affermare che un servizio ricevuto è stato scadente o che un’opinione è poco fondata non costituisce reato, purché non si trascenda in attacchi personali.
• Espressioni colorite e gergali: alcune frasi, pur avendo una connotazione negativa, sono considerate parte del linguaggio comune e non ledono l’onore della persona.
• Domande retoriche: frasi come “Ma sei serio?” o “Ci sei o ci fai?” non sono considerate offensive a livello giuridico.
• Ironia e satira: entro certi limiti, l’uso dell’ironia non è perseguibile penalmente, salvo che non si trasformi in un attacco diretto alla dignità di una persona.
La Corte di Cassazione ha fornito alcuni esempi concreti di espressioni che, pur essendo poco eleganti, non costituiscono reato.
Ad esempio, la frase “Mi hai rotto le scatole”, come spiega una sentenza del 2013, è più che altro una espressione di fastidio anziché un’offesa diretta all’onore. Similmente, definire qualcuno “un rompiscatole” è considerato un’espressione gergale e non un attacco alla reputazione.
L’uso delle parole, in particolare in ambito digitale, richiede cautela. Sebbene alcune espressioni possano risultare fastidiose o spiacevoli, non tutte sono giuridicamente rilevanti. La differenza tra diffamazione e ingiuria, tanto quanto il principio della continenza della critica, sono elementi chiave per comprendere quando un insulto possa avere conseguenze legali.
La giurisprudenza non smette mai di evolversi per adattarsi ai nuovi mezzi di comunicazione, ma il principio comunque rimane invariato: la libertà di espressione deve essere esercitata nel rispetto dell’onore e della reputazione altrui.